Le ragioni

Mi risveglio dopo una pausa forzata dovuta a traslochi vari, a una montagna di documenti,  alla nuova vita nell’ennesimo Land tedesco.

Il risveglio però mi riporta indietro a passo di gambero: paura, terrore, bombardamenti, la propaganda, le antiche e reiterate guerre. E dalla guerra nasce la guerra: da quella finta si genera la guerra vera, da un piccolo conflitto se ne produce uno immenso.

Cosa si fa allora? Si discute sulle ragioni della guerra: ma quando la guerra aveva ragione nella storia? Quando la violenza di ogni genere e forma aveva ragione di essere? Quando?

Erasmo ci ricorda che la natura ha attribuito all’uomo la parola e la ragione, che più di ogni altra cosa ha il potere di suscitare e accrescere la benevolenza e di evitare che gli uomini usino la violenza. Questa ragione alcuni uomini non l’hanno mai considerata come alternativa ma alla parola ragione hanno accostato le più svariate scuse per compiere atti di guerra: le ragioni del terrore, della religione, dell’ingiustizia che poi sono la facciata per nascondere solo e unicamente le ragioni del PROFITTO e dell’AVIDITA’.

Ragione deriva dal latino ratioonis (der. di ratus, participio passato di reri «fissare, stabilire»).  Rimaniamo sul significato originario di conto, conteggio senza percorrere la lunga strada che questa parola ha fatto nella storia e nella filosofia. E cominciamo a contare quante guerre ci sono nel mondo e quante bandiere di pace dovrebbero sventolare, cominciamo ad accostare alla ragione la pace senza scuse e senza ma.

La pace dovrebbe essere sempre la nostra più profonda e intensa aspirazione nella vita, la nostra vera e concreta ragione per vivere questa esistenza.

Ricordo sempre le parole della nostra Costituzione: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

Purtroppo la storia ci insegna esattamente il contrario!

Resilienza

In psicologia, resilienza è la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Questa capacità si rafforza e si fa scudo contro le avversità nel momento in cui tendiamo al raggiungimento del bene sommo. Cosa intendo con bene?

Bene è quello che si desidera in quanto è conveniente alla natura umana e che se posseduto rende tranquilli, felici, porta benessere.  In economia bene è tutto ciò che è ritenuto atto a soddisfare un bisogno e che crea ricchezza.

Per cercare il nostro bene dobbiamo procurare quello dei nostri simili. In economia il bene è considerato utile, ritenuto capace di soddisfare un bisogno provocando una sensazione piacevole o evitandone una dolorosa. Più in generale ciò che è redditizio, che dà frutto.

Il nostro benessere è connesso alla qualità delle relazioni umane, al contrario del nostro benessere in economia che è connesso al consumo bulimico di beni di comfort.

Cosa ci porta al sommo bene?

Una idea di bene basata sulle relazioni umane che non possono essere né prodotte né consumate da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità e dalle motivazioni delle interazioni tra persone; una idea di bene sorretta da reciprocità, creatività,  identità,  simultaneità, motivazione, fatto emergente, bene e gratuità.

L’economia di oggi ha in sé una idea basata sul profitto, sul consumo ossessivo di finti beni , sull’accumulo di ricchezza, sul possesso e sull’avidità.

Cosa ci rende veramente felici?

Secondo Aristotele un uomo si può ritenere felice quando ha un demone buono, una vita buona. Quando ha un equilibrio che consente di mantenere intatta la disposizione d’animo detta magnanimità. Una vita buona data da rapporti umani solidi basati sulla reciprocità e sulla relazione. Possiamo essere ricchi anche da soli, ma per essere felici occorre essere almeno in due.

Secondo la società in cui viviamo un uomo si può ritenere felice quando possiede l’ultimo modello di cellulare, una casa più grande, dei vestiti costosi. Quando consuma beni,  attiva la macchina della produzione, spende soldi e fa salire il PIL.

Cosa rende una società virtuosa?

Una società virtuosa fa si che il benessere di ognuno si risolva nella felicità pubblica, una felicità condivisa in cui ci sia una reale uguaglianza. Una società in cui il diritto alla felicità sia legge certa dello stato, che opera per rendere accessibile a tutta la popolazione risorse, beni durevoli, sicurezza sociale, diritto allo studio, alla salute, al lavoro. Lontani da ogni privatizzazione dei beni essenziali, nel rispetto dell’ambiente e della dignità umana.

La società di oggi è resa “virtuosa” dal tempo consumato e speso. Ci offre modelli inarrivabili per indurci a volere sempre di più.

Una economia della felicità è possibile?

Assolutamente si! Basta cercare esperienze come la decrescita felice, le città di transizione, le banche del tempo, la democrazia diretta e tutte le esperienze che portano ricchezza immateriale e benessere reale. Esperienze nate dalla capacità di resilienza degli esseri umani che superano le difficoltà creando modelli di reciprocità grazie alla creatività e alla voglia di condivisione. Una economia che restituisce il senso di comunità e appartenenza e che fa l’uomo felice.

La felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona. Il tradimento dell’individualismo sta tutto qui: nel far credere che per essere felici basti aumentare le utilità – Paradosso della felicità di Richard Easterlin

 

Localizzare

La cosa meravigliosa è che più diminuiamo la scala della nostra attività economica, più aumentiamo il nostro benessere e questo avviene perché a livello più profondo localizzazione significa connessione, significa ristabilire il nostro senso di interdipendenza con gli altri e con il mondo naturale e questa connessione è un bisogno fondamentale dell’uomo. Helena Norberg Hodge

Localizzare significa circoscrivere, restringere, limitare, accertare, determinare il punto preciso in cui si è verificato o da cui ha origine un fenomeno o che è sede di un fatto particolare. In sé ha naturalmente il lòcus – il luogo, inteso come spazio circoscritto dall’individuo nel suo comportamento sociale, nella sua rappresentazione e organizzazione della realtà in cui vive.

Per me Spazio nella società significa spazio sonoro che dovrebbe produrre suoni armonici: nel momento in cui siamo connessi, esprimiamo il rapporto di intima e reciproca dipendenza con altri esseri umani; e in quel preciso istante siamo parte del tutto, esprimiamo musica e respiriamo l’anima del mondo.

Interdipendenza significa conoscere l’origine e la storia della nostra comunità, anche attraverso ciò che mangiamo, respiriamo o coltiviamo. Appartenere ad un luogo significa circoscrive, ottimizzare le risorse di un determinato territorio ma non lo sviluppo delle idee che viaggiano veloci.

Localizzazione e benessere vanno quindi di pari passo con una società armonica e equilibrata … scegliamo di scegliere!

 

Discriminazione NO grazie!

Un giorno del lontano 2010, mi trovavo in Brasile a lottare per conseguire i miei obiettivi lavorativi.  Volevo lavorare e fare ricerca nel sud e allora ho cominciato il percorso burocratico per il riconoscimento dei miei studi. Mi ricordo un giorno, ero nell’ufficio del ministero del lavoro e una signora simpatica e col sorriso stampato sulla faccia mi chiede cosa ci facessi in quell’ufficio. La mia domanda era semplice:”Per lavorare in questo paese ed essere in regola cosa devo fare?” La risposta non si è fatta attendere ed è stata:”Francesca, non ti illudere sei una donna sola in un paese straniero, vai a cercare un marito brasiliano sulla strada!”.

Trento (Italia) settembre 2009. Centro del lavoro: arrivo puntuale all’appuntamento e mi accoglie una signora con il solito sorrisetto sulla faccia di chi ha un posto fisso e non sarà mai licenziato. Guarda il mio curriculum e ride:”Ma cosa ci vuole fare con questa laurea? Avere un lavoro? Impossibile!”

Un giorno di qualche anno dopo, mi sono messa in testa di stipulare una assicurazione sanitaria in Germania. Ho pensato:”Beh vivo qui, è importante avere la possibilità di essere curata”. Ovviamente in questi uffici non sanno niente di cosa significhi avere una tessera sanitaria europea e ho dovuto aspettare due mesi perchè riuscissero a spiegarsi e a spiegarmi l’iter burocratico. La signora con un sorriso di circostanza stampato sulla faccia mi dice”Frau Rimauro ha alcune possibilità ma certo se lei  sposa un tedesco, in un secondo è tutto risolto”.

Dopo questo incontro ho avuto anche la brillante idea di chiedere un posto in un dottorato. Le prime frasi pronunciate sono state:”Francesca si deve rendere conto che non ci sono molte possibilità di diventare professore in Germania, non ci sono posti e poi lei è una straniera, praticamente impossibile”.

Non mi sono data per vinta e adesso seguo un corso di tedesco, un corso di integrazione. Una classe colorata, di tutti i colori del mondo dalla Grecia alla Siria, da Cuba alla Bolivia, dalla Georgia all’Ungheria. Abbiamo imparato a scrivere meglio il nostro curriculum, abbiamo ascoltato interviste sul mondo del lavoro in Germania (Vedi in Little Italy – Generation Praktikum) e dobbiamo sopportare col sorriso un tizio che ogni giorno interrompe le lezioni per controllare se siamo presenti e per ricordarci che non siamo noi a pagare il corso ma lo stato tedesco. Dobbiamo sopportare anche il sorriso della nostra insegnante quando ci fa ascoltare interviste in cui si parla di barconi in Italia, guerre in Siria, Grecia allo sbando. Dobbiamo imparare il tedesco attraverso frasi come “quando avrò imparato il tedesco, non troverò lavoro”. Questa si chiama integrazione?

Come sempre le parole sono importanti e la loro storia ci aiuta a comprendere tutto quello che succede nel mondo, infatti siamo noi a creare parole. Allora come chiamate gli episodi che vi ho raccontato? Per me questa è discriminazione.

Discriminazione deriva dal latino discriminatio, da discrimen separazione; è un derivato di discernere (dal greco dis – due volte e cèrnere – separare una cosa dall’altra). Quindi è una distinzione, una differenziazione operata fra persone, casi, cose e situazioni.

Distinguere crea differenza e  alza un muro fra gli interlocutori. Con questo muro ci dobbiamo confrontare ogni giorno ma per noi questo muro non esiste. Esiste solo nella testa di chi crea distinzioni e pur non pronunciando la parola discriminazione, nei fatti divide, separa e separa due volte (dis). La prima volta con il Noi contrapposto al Voi, la seconda volta pronunciando la parola straniero, quindi estraneo, esterno alla società.

Noi non siamo stranieri, siamo esseri umani. Aboliamo questa parola che nuoce gravemente alla salute!

 

Democrazia

Sono in trepida attesa per la situazione greca e non posso fare a meno di pensare che la democrazia ha radici nella bella e soleggiata Grecia.

Com’era la democrazia ai suoi esordi? C’erano principi di eguaglianza di fronte alla legge (isonomia), di libertà di parola (isegoria) e parità nel concorrere alle cariche pubbliche (isotimia).

Esisteva una assemblea primaria (ἐκκλησία), alla quale partecipavano tutti i cittadini maschi adulti, un consiglio (βουλή), che in Atene era sorteggiato proporzionalmente fra le tribù e investito del compito di formulare le proposte da sottoporre al giudizio dell’assemblea; dei magistrati, eletti o sorteggiati, che restavano in carica normalmente per il periodo di un anno con funzioni ‘esecutive’ e con obbligo di rendiconto all’assemblea.

In sostanza il demos si faceva comunità, si faceva polis,  per dirla tutta si trattava di democrazia diretta.

Se penso alla democrazia di oggi non vediamo isonomia, isegoria, isotimia ma isoruberia, isomalaffare, isodelegittimazione della volontà popolare.

Allora il motto deve essere: facciamo pressione e mandiamoli a scuola di democrazia!

 

 

Votare

Da dove deriva il verbo votare?

Dal latino vovère che significa promettere solennemente o dedicare. Ad ogni voto è compagno un desiderio o una promessa votiva. Il voto, attraverso il quale esprimiamo la nostra volontà, è accompagnato dal desiderio di essere realizzato.

La realizzazione del voto promuove o dovrebbe promuovere iniziative tese al miglioramento della nostra vita nella società.

Quando esprimiamo la nostra volontà diamo un segnale, scegliamo di poter scegliere, non lasciamo che gli altri decidano per noi. E’ libertà, è partecipazione, è volontà di cambiamento.

Quando abbiamo possibilità di esprimere questa meravigliosa promessa votiva, allora possiamo esprimere un desiderio e sentire il vento del rinnovamento. Quindi non ci resta che valorizzare tutti gli strumenti di partecipazione e pensare che con un piccolo gesto abbiamo la possibilità di decidere e di cambiare.

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Libertà è partecipazione

Partecipazióne dal latino tardo participatioonis.

Le parole come diceva qualcuno sono importanti e ce ne sono alcune che sono lo specchio della nostra libertà personale e collettiva. Penso alla parola partecipazione e penso al suo significato nell’Italia e nel mondo di oggi.

Cosa significa partecipare? In generale, il fatto di prendere parte a una forma qualsiasi di attività, sia semplicemente con la propria presenza, con la propria adesione, con un interessamento diretto, sia recando un effettivo contributo al compiersi dell’attività stessa.

In senso più soggettivo, indica un sentimento di vicinanza affettiva per cui si condividono, avvertendole e dichiarandole come proprie, le gioie e le pene di altre persone .

Insomma il fatto di partecipare, di comunicare, di far conoscere ad altri, questa è la nostra più grande libertà.

Partecipazione è un diritto-dovere ed è la parola più democratica del vocabolario!

La parola a Giorgio Gaber: